La pista verso cui c’indirizza autorevolmente la sapiente narrazione
lucana dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35) è, piuttosto, quella
che riconduce all’unico Signore che è il Risorto, viandante con i suoi,
l’accensione del cuore nell’esegesi/interpretazione delle Scritture e il
suo darsi a conoscere infine nello spezzare il Pane: sottraendosi
proprio così, col suo darsi concreto nella carne dell’Eucaristia, a
qualsivoglia tentativo di cattura, tenendo invece desta e ravvivando
la struggente e vigilante attesa della sua ultima venuta.
È il volto di Dio che si fa parola e gesto, mediante l’Eucaristia, nella
nostra carne, come dichiara la prima lettera di Giovanni esplicitando
il prologo del quarto vangelo: «Nessuno mai ha visto Dio, se ci
amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto»
(1Gv 4,12).
Il linguaggio eucaristico, se per sé propizia un peculiare linguaggio
teologico, ancor prima e originariamente propizia un preciso
linguaggio ecclesiale. Esso, per la logica intrinseca del segno
eucaristico nella dinamica correlazione dei soggetti ecclesiali
secondo la peculiarità del loro ministero cui dà forma, non può in
prima istanza qualificarsi come gerarchico e piramidale, uniforme e
massificante, cerimoniale e identitario, ma piuttosto come fraterno
e sinodale, sinfonico e pluriforme, conviviale e ospitale: espressione
e maturazione progrediente dell’essere/diventare uno, nella libertà
dello Spirito, in Cristo Gesù (cf. Gal 3,28), per la salvezza del mondo.
(Dall’Introduzione)